Claudio Santamaria

Il provino non lo fa soltanto il regista all’attore, ma anche l’attore al regista. Nell’arte come nella vita non puoi stare fermo. I viaggi li faccio prenotando all’ ultimo. La Foresta amazzonica non ha eguali.
18
May

CLAUDIO SANTAMARIA

Attore di cinema, televisione, teatro, doppiatore e musicista. Artista poliedrico e impegnato, per la tv è stato Rino Gaetano ma anche il Maestro Manzi.

Al cinema lo abbiamo visto in film di Bernardo BertolucciMarco RisiGabriele MuccinoPupi AvatiDario ArgentoMichele PlacidoNanni Moretti, è stato candidato ai Premi David di Donatello ed ha già vinto diversi Nastri D’Argento come quello di Miglior Attore Protagonista per il film “Romanzo Criminale”, ex aequo con Kim Rossi Stuart e Pier Francesco Favino.

Eppure Claudio Santamaria continua a frequentare workshop e non si tira indietro quando c’è da aderire al progetto di un’opera prima, come per i recenti “I primi della lista” dell’italo-inglese Roan Johnson e “Lo chiamavano Jeeg Robot”, lungometraggio d’esordio per Gabriele Mainetti.

Uno degli attori più attivi con Artisti 7607 per il riconoscimento dei diritti degli altri interpreti, condivide questo impegno con altri volti noti, da Elio Germano a Neri Marcorè e Cinzia Mascoli.
Vive a Roma ma va spesso in Basilicata ed è lì, durante uno dei suoi soggiorni nel paese della madre, che lo abbiamo intercettato.

Per parlare di alcuni dei suoi ultimi ruoli, dei film futuri e di quelli che gli hanno già fatto attraversare foreste.

Nella tua carriera hai interpretato ruoli molto diversi tra loro, spesso impegnativi e impegnati, come “Il venditore di medicine”. Come scegli i copioni?
Diciamo che è già un traguardo per me poter avere la possibilità di scelta, all’inizio non è stato così. Oggi scelgo in base al mio gusto.
Se un film è scritto bene è già un grande punto a favore, perchè per me il 70% della scelta ricade sulla sceneggiatura. Sul tema non ho problemi.
Quando mi hanno proposto “Il venditore di medicine” (A. Morabito, 2014 ndr) ho pensato fosse una storia assolutamente necessaria, non leggevo un film così da anni, quindi ho subito accettato.
Che sia una commedia, un film drammatico o un film di cinema civile, l’importante è che sia scritto con intelligenza.
Un altro elemento fondamentale è il rapporto che posso avere col regista. Infatti non mi tiro mai indietro quando c’è da fare un provino, perché il provino non lo fa soltanto il regista all’attore, ma anche l’attore al regista. Per capire se ci può essere un’intesa, sul lavoro ma anche emotiva.
Questi per me sono i punti fondamentali. E’ una scelta abbastanza istintiva.

Tra i tuoi ruoli di quest’anno anche quello del maestro Manzi, che in tv insegnò a leggere e a scrivere a un’intera generazione. Un supereroe della formazione?

Assolutamente sì. E per diverse generazioni, per gli anziani come per i bambini. Lo stesso produttore Angelo Barbagallo mi raccontò che lui imparò a scrivere col maestro Manzi, ancora prima di andare a scuola.
Io devo ammettere che prima non lo conoscevo, perché non è della mia epoca. L’ho scoperto quando mi hanno proposto il personaggio e l’ho considerato da subito un eroe, anzi un supereroe. Perché è una di quelle persone che hanno cambiato qualcosa del nostro Paese. E la televisione è la parte più superficiale del personaggio, di Alberto Manzi. Lui avrebbe potuto fare qualsiasi cosa: dirigeva la facoltà di magistero, la sezione sperimentale e se n’è andato, ha iniziato a insegnare alle elementari, per sua scelta.

Cosa racconta questo personaggio all’Italia di oggi?

Forse che la società si cambia partendo dai bambini, dalla formazione. Tu formi degli esseri umani che poi creeranno una realtà migliore. Interpretare un personaggio del genere mi ha fatto sentire orgoglioso. E’ stato bello e importante poterlo far conoscere a chi non sapeva neanche che fosse esistito e poterlo ricordare a chi lo aveva conosciuto.
Dopo il film, poi, ho incontrato persone, insegnanti e presidi di scuole, che mi hanno detto che ne era nata una vera e propria discussione sull’insegnamento. E sui voti. Perché Manzi non dava voti. Riteneva fosse sbagliato, ed è quello che penso anch’io. Questo dibattito è stato un regalo meraviglioso, il ritorno più bello che ci potesse essere; mi ha reso veramente fiero di aver interpretato questo personaggio e di fare questo lavoro.
L’esperienza è stata molto impegnativa e faticosa ma anche molto rigenerante, avendo a che fare sempre con i giovani e con i bambini. Dopo le riprese tornavo a casa ma non ero mai stanco, sul set circolava una grandissima energia. Li avevo fatti entrare in un gioco: a volte loro mi dicevano “ma tu hai fatto Romanzo criminale?” e io rispondevo “No. No io sono il tuo maestro, io non faccio l’attore, faccio il maestro, sono il tuo maestro. Tu come ti chiami nel film? Vuoi che ti chiami così o preferisci un altro nome?”. Anche loro hanno cominciato a giocare, a crederci e hanno iniziato ad avere delle reazioni vere nelle scene. Sono entrati nel loro personaggio, nel gioco, nel gioco del film e del recitare. E’ stato veramente un lavoro bellissimo.

Recitare è un gioco ma è anche un mestiere e un’arte. Si sente dire spesso che abbia bisogno di una formazione continua. Cosa ne pensi?

Per me è fondamentale. E’ un mestiere in cui è facile prendere dei vizi, dei vizi di forma.
E’ facile incontrare un binario e seguire sempre quello, rimanere fermi. Invece, come diceva Stanislavskij, nell’arte come nella vita non puoi stare fermo: o vai avanti o vai indietro.
Anche per questo se c’è un seminario interessante vado sempre: per vedere come posso migliorare. Può sembrare una frase fatta ma è così: questo è un mestiere in cui non si finisce mai d’imparare.

A proposito di seminari, a settembre ritornerà a Roma Ivana Chubbuck, l’insegnante di James Franco e molte altre star hollywoodiane, la coach che ha portato agli oscar Halle Berry e Charlize Theron. So che hai già frequentato lo scorso anno i suoi workshop e che ci sarai anche quest’anno. Cosa ti ha colpito della sua tecnica?

Quest’anno non so se potrò esserci perché in quel periodo inizierò a lavorare in modo molto intenso, ma certamente se potrò farò un’incursione.
Ho letto il suo libro (Il potere dell’attore), lo scorso anno quando è arrivata in Italia sono stato all’incontro con lei e poi ho partecipato come uditore ai suoi workshop. Quando potevo, nei ritagli di tempo, andavo. L’ho trovata molto interessante.
Ivana Chubbuck è innanzitutto una grandissima direttrice di attori e ho trovato il suo libro molto… “rinfrescante”. E’ molto pratico. Non si perde in teorie, va diretto sulle scene, sulle sostituzioni, su una serie di esercizi, ti fornisce gli strumenti, ti fa fare step utili.
Negli Stati Uniti d’altronde si lavora per trame e schemi, anche nelle sceneggiature e nella regia. Innanzitutto devi conoscere la griglia, per poi poterti muovere come vuoi.
Secondo me non bisogna mai prendere da una sola insegnante, però, ma mettersi alla prova con più metodi. C’è un’altra coach molto brava che si chiama 
Doris Hicks, è austriaca, anche lei ha studiato molti anni negli Stati Uniti.
Entrambe, sia Ivana sia Doris, sono per me un riferimento importante, due insegnanti molto brave. Lavorano in maniera profonda sulle cose. Tendono ad arrivare allo stesso obiettivo ma lo fanno attraverso strade diverse.
Quello di Ivana è un lavoro molto immediato, molto utile per il cinema, per approfondire il personaggio ma anche per quando hai poco tempo, per fare un provino o per studiare una scena con una persona che è arrivata il primo giorno sul set. Ti dà delle chiavi per entrare in un attimo in rapporto con l’altro attore o l’altra attrice attraverso una serie di sensoriali molto veloci.
L’anno scorso, durante una pausa del workshop, mi ero avvicinato ad Ivana per chiederle di capire meglio questa cosa e lei mi ha detto di guardare una persona e cominciare a pensare: “Tu hai le stesse paure che ho io, gli stessi problemi, sentiamo le stesse cose, gli stessi sentimenti”; e poi iniziare a fantasticare sessualmente su di lei. Mi ha detto: “Vai lì, siediti accanto a quella persona e prova”. L’ho fatto e alla pausa successiva sono ritornato da Ivana e le ho detto “Ivana, sembrava che fossimo a letto insieme. Eravamo seduti e parlavamo, ma sembrava che fossimo nello stesso letto, a parlare sotto le coperte!”.
Lei ha sintetizzato la sua grande esperienza in chiavi molto facili da utilizzare.

Artisti 7607, che è la collecting di cui fai parte e che si occupa della tutela dei diritti dei lavoratori dello spettacolo, finanzierà delle borse di studio per i prossimi workshop di Ivana Chubbuck. Come mai?

Artisti 7607 si occupa adesso di raccogliere i diritti dei passaggi televisivi degli iscritti e visto che una parte dei soldi vanno reinvestiti in progetti cinematografici tra cui progetti di formazione, abbiamo pensato di aderire a questo progetto. I workshop di Ivana Chubbuck saranno la nostra prima iniziativa in questo senso e la scelta è stata di mettere a disposizione una serie di borse di studio per i nostri mandanti, alcune per partecipare attivamente al workshop con Ivana, come attori, altre solo per assistere come uditori.
Abbiamo inviato l’email a tutti e alcuni dei nostri si sono già presentati per fare i provini e poter frequentare con Ivana.
Ci piace poter contribuire così anche a diffondere un modo di lavorare. Che sia Ivana Chubbuck, che insegna il metodo e la sua tecnica, o Doris Hicks o 
Michael Margotta e Lucilla Lupaioli, che è un’altra insegnante che stimo, l’importante è che si cominci a creare un’uniformità. Negli Stati Uniti c’è “il Metodo”, si sa che quello che s’insegna parte da Stanislavskij, da Strasberg, e ancora prima dalla Duse. Si studia. In Italia questa cosa non c’è e mi sembra si sia creata molta confusione sull’insegnamento della recitazione. Puoi incontrare scuole in cui c’è una formalità molto forte, in cui si cerca di arrivare al personaggio da un punto di vista esteriore. Oppure c’è anche una tendenza al naturalismo che secondo me è deleterio; perché si prendono dei vizi di forma e fare l’attore non è dire le battute come ti viene naturale, così non fai il personaggio. Poi puoi capitare con uno che t’insegna semplicemente a dire una battuta in un certo modo, con una certa intonazione, ma non è quello il lavoro dell’attore. Ci sono persone che fanno un seminario e che pensano così di avere finito la formazione e dicono di fare l’attore. Però poi non vanno molto lontani. Perciò ci fa piacere poter contribuire a diffondere in Italia una cultura dell’attore che studia, che si migliora continuamente.

Quando lavori su un personaggio, quali sono gli strumenti a cui non riununceresti mai?

Dipende dal tipo di personaggio… a volte parto da una caratterizzazione esterna, altre volte da una sostituzione, il tipo di lavoro è sempre diverso. Penso però che il lavoro di analisi del testo sia sempre fondamentale.
A 16 anni avevo cominciato così, con un insegnante che per fortuna aveva studiato Stanislavskij, infatti I miei copioni erano tutti pieni di appunti. Poi per un periodo ho lasciato perdere questo tipo di lavoro, pensavo di saper fare ormai tutto al volo e ho preso dei vizi di forma… Infatti a un certo punto ho cominciato a fare le cose meno bene e per un certo periodo mi è stato molto antipatico questo mestiere, lo ritenevo inutile.
Poi per fortuna ho capito che dovevo semplicemente ricominciare a lavorare bene sulla storia e sui personaggi.

Alla fine di un film continui a portare con te qualcosa del personaggio o preferisci abbandonarlo per lasciare spazio ai personaggi del futuro?

Se il personaggio mi diverte continuo a tenere qualcosa, almeno per un po’.
Quando fai un personaggio apri delle porte, e quella porta poi sta lì, sbloccata, sai che ogni tanto puoi esplorarla e divertirti. Qualcosa ti rimane.
Ad esempio l’ultimo film che ho girato è quello di 
Gabriele Mainetti (“Lo chiamavano Jeeg Robot” ndr) e lì c’è stato anche un lavoro fisico: pesavo quasi 100 chili, avevo un corpo diverso. Parlavo anche in maniera diversa. Molto presto ho iniziato ad amare quel personaggio e ancora adesso ogni tanto mi viene fuori. Quando Mainetti, che ora è in montaggio, mi chiede delle cose mi diverto a parlargli da “Enzo”!

Quale sara’ il tuo prossimo impegno cinematografico o televisivo?

Devo iniziare a lavorare a settembre con Giorgio Barberio Corsetti, iniziamo le prove di uno spettacolo, “Gospodin”, di un autore tedesco che si chiama Löhle. Io ho sempre amato Corsetti e tutte le volte che vedevo i suoi spettacoli restavo incantato. Quindi è un grande piacere per me poter lavorare con lui.
Poi dovrò girare una serie televisiva diretta da 
Riccardo Milani e Francesco Vicario, scritta da Ivan Cotroneo, per la Rai, con Claudia Pandolfi: “E’ arrivata la felicità”. Secondo me è scritta molto bene, molto intelligente e divertente.

Per molti è arrivato il tempo delle grandi partenze, parliamo perciò un po’ di viaggi. In uno dei tuoi primi successi, l’Ultimo bacio, per te prima candidatura al David di Donatello, sei stato Paolo, che sogna e organizza il viaggio della sua vita per fuggire da tutto e tutti, ricominciare una nuova vita in camper e con pochi vestiti nello zaino. Anche nella vita preferisci i viaggi on the road?

Sì, ne ho fatti diversi. E’ un tipo di viaggio che mi piace moltissimo.
Una volta dovevo andare in Croazia, ed era luglio, la gente ancora non partiva, gli amici stavano a Roma. Vado dal mio meccanico e gli chiedo se avesse una moto, qualcosa… “Guarda c’ho un’Honda”, mi fa lui. “Enduro, 250, se la vende uno a un milione e mezzo (di lire)”. Allora sono schizzato all’ACI a fare il foglio rosa, sono tornado a prendere questa moto, uno zaino, c’ho messo dentro quattro magliette, quattro mutande, una felpa, ho portato tenda e secco a pelo e sono partito. La moto non ce l’avevo mai avuta. Ho fatto un viaggio da solo, stupendo. Sono andato per campeggi, pensioncine…
Un’altra volta sono andato in Messico, con un amico, senza mai prenotare nulla. Anche lì andando all’avventura, come tanti altri viaggi che ho fatto, quasi sempre prenotando all’ultimo.

Qual è stato l’ultimo viaggio che hai fatto?

E chi si ricorda… Negli ultimi tre anni ho girato talmente tanto… Per il cinema, per la televisione. E per il teatro, soprattutto. Ho fatto due spettacoli da più di 100 repliche l’uno, 200 repliche in giro per l’Italia.
Insomma ho viaggiato talmente tanto per lavoro che la vacanza per me adesso è stare a Roma.

Che sia uno zaino o una valigia, quali sono le cose che comunque preferisci non portare con te?

I vestiti eleganti, forse. In genere porto cose pratiche, libri… Pila elettrica e coltellino sono fondamentali per me.
Porto anche cose inutili, però. Una volta sono partito con un puntatore laser nello zaino. Fa un fascio di luce che arriva fino alle stelle… Tu vuoi indicare una costellazione? Puoi indicarla con quello, come se il cielo diventasse una lavagna. Quella volta avevo con me anche un’applicazione che si chiama Starwalk, che ti fa vedere la mappa stellare, e con il laser puntavo le costellazioni.

Dei viaggi ti piace più la meta o lo spostamento?

Dipende da come viaggio… se viaggio in macchina, in aereo o in treno.

Come preferisci arrivare?

In treno. Però preferisco il treno se sono solo, la macchina se sono con amici, l’aereo se il tragitto è lungo…
L’altro giorno stavo tornando dalla Puglia in macchina, verso la Basilicata, mi sono fermato in un autogrill, c’erano le cicale e all’improvviso ho provato una sensazione che provavo da bambino, quando andavo in giro in bicicletta da solo. Ed è stata molto forte. In questo periodo mi piacerebbe stare in un posto desertico, senza telefonino e senza niente. Perché la natura, quando ti trovi in un posto isolato, da solo, ti arriva addosso, ti fa sentire tutto. Ti mette in contatto pieno con te stesso.

Hai accennato a quando andavi in giro in bici da ragazzino. Ci sono dei luoghi a cui ancora oggi ti senti particolarmente legato, nonostante tutti I viaggi che fai?

A parte Roma, direi la Basilicata, nel paese di mia madre. Ogni volta che vengo è una sensazione molto forte. Qui ho trascorso la mia infanzia.
In questi paesi tu esci di casa e in pochi minuti puoi arrivare in campagna.
Mi ricordo queste lunghe passeggiate con i miei cugini, per fiumi, campi, coltivati e non coltivati. Quelli sono i ricordi più belli che ho dell’infanzia, per questo mi piace sempre stare in mezzo alla natura.
Poi c’è un parco naturale stupendo che è il Parco Naturale del Pollino, a metà tra Calabria e Basilicata. Anche lì ho dei ricordi bellissimi.

Luoghi che invece ti hanno sorpreso, magari incontrati per caso?

Adesso mi vengono in mente le Hawaii. Sono totalmente diverse da come me le immaginavo. Un paradiso terrestre, a metà tra Oriente e Occidente, un luogo meraviglioso in cui puoi perderti tra foreste di bamboo e fiumi. A volte devi lasciare lo zaino perché non puoi più preseguire e puoi solo buttarti in acqua per nuotare fino alla cascata…

Qual e’ stato il tuo viaggio piu’ avventuroso?

In Amazzonia. Era un viaggio di lavoro ma era un film d’avventura (“Seicento chili d’oro puro”  di Richard Bernard ndr). Mi sono dovuto calare nel personaggio ma anche in molti fiumi. Andavamo completamente immersi fino al petto, con gli zaini su una zattera, chiedevamo alla guida “Sicuro che non ci sono animali che ci tirano giù?”. Giravamo sempre dentro la foresta. Fare un film è già di per sè un viaggio, ma accettare di fare un film del genere è un doppio viaggio, nel film e nei personaggi ma anche in un posto che altrimenti non avresti forse avuto mai la possibilità di vedere.
Come Cayenne, nella Guyana francese, forse non ci sarei mai andato se non per girare un film (Birdwatchers – La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, Italia Brasile 2008, con Chiara Caselli ndr). Un’esperienza forte, straordinaria, soprattutto per il contatto con gli indigeni Guarani. Un viaggio più umano che di luogo.
Sono scelte estreme: stai lì due mesi, lontano da tutto. Forse è questo che non mi spinge più a viaggiare tanto, a fare viaggi avventurosi quando sto in vacanza: li faccio già per lavoro.

Il posto piu’ bello in cui ti è capitato di lavorare?

La Foresta amazzonica: non ha eguali.
Forse anche la Patagonia, nel ‘99 (“Terra del fuoco” di Miguel Littis, Spagna Italia 2000, con Ornella Muti ndr). La Pampa sterminata, sconfinata; lo stretto di Magellano.

Si parla sempre più spesso di cineturismo. Ti è mai capitato, durante un viaggio, di aver riconosciuto strade e città che avevi già visto come location in un film?

Torino, la piazza di Profondo rosso (Dario Argento, 1975 ndr), con le due statue sdraiate come in un triclinio. Quando l’ho riconosciuta mi ha preso un colpo! E’ la piazza in cui Gabriele Lavia e Hemmings discutono ubriachi, sentono una donna urlare e la sensitivia dell’inizio del film che viene uccisa.
Mi emoziona molto poi rivedere come erano i luoghi un tempo. Per esempio ho rivisto da poco C’eravamo tanto amati (Ettore Scola 1974, con 
Nino ManfrediVittorio GassmanAldo FabriziStefania Sandrelli) e rivedere la Roma di un tempo mi fa sentire una grande nostalgia per quei luoghi così tanto vicini a noi eppure così tanto lontani, nel tempo.
New York e Los Angeles, poi, sono un continuo déjà vu.

di Valentina Leotta

Leggi l’intervista originale.

 

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