INTERVISTA, WORLDPASS

Un articolo che parla della bellissima attrice ungherese, dove parla delle sue esperienze tra Gli Stati Uniti e L'Europa e l'esperienza con Ivana Chubbuck.
13
May

ANDREA OSVART

Quando avevo 6 anni ho sentito di essere diversa. Mi piace trovare nuove cose, mi piace provarmi, mi piace essere in compagnia, in comunità. In Maternity Blues ho ucciso due figli. È stato il mio lavoro più difficile. Trovo più originale il cinema italiano, perché a Hollywood non riescono a sorprendermi più così tanto.

Ungherese di nascita, internazionale d’adozione, scoperta da un signore chiamato Tony Scott (fratello minore di Ridley e regista di cult americani tra cui Top Gun), Andrea Osvart in oltre tredici anni di carriera ha conquistato anche il pubblico italiano, diventando uno dei volti più noti del grande e del piccolo schermo.

Una mente vulcanica, poliglotta (oltre all’ungherese anche italiano, inglese, un po’ di francese e un po’ di tedesco), in questa intervista esclusiva parla dei suoi inizi, di Hollywood e del cinema italiano, dei segreti della sua arte e degli incontri che hanno cambiato la sua vita.
C’è un regista con cui vorrebbe tanto lavorare in Italia… nel frattempo i suoi progetti continuano a portarla altrove.

Dopo aver debuttato al cinema nel 2000 con un piccolo ruolo nel film L’esecutore di Anthony Hickox accanto a William Hurt e Peter Weller, ed essere stata scelta da Tony Scott per Spy Game con Robert Redford e Brad Pitt, la Osvart non si è mai fermata. L’abbiamo vista nelCasanova della Disney con Heath Ledger e Sienna Miller (2005) e in Duplicity accanto a Clive Owen e Julia Roberts. Solo per citarne alcuni.
Ora è la protagonista femminile della megaproduzione internazionale Transporter: The Series, voluta da Luc Besson.

Da molti anni legata all’Italia (a Budapest si è laureata in Letteratura Italiana con una tesi su Elsa Morante), nota al grande pubblico per aver presentato il Festival di Sanremo accanto a Pippo Baudo e Bianca Guaccero, vanta anche una ricca filmografia italiana. Da ricordare tra gli altri Mare Nero di Roberta Torre accanto a Luigi Lo Cascio e Anna Mouglalis (2006), La fine è il mio inizio (2010) sulla vita di Tiziano Terzani, con Bruno Ganz ed Elio Germano2061 – Un anno eccezionale (2007) e Un matrimonio da favola (2014) di Carlo VanzinaAnita B. di Roberto Faenza (2014). Ma il ruolo che in assoluto le è valso più riconoscimenti è stato quello drammatico della madre infanticida di Maternity Blues di Fabrizio Cattani (2011).

Per la tv è stata la Kairesin Eugenia nel serial La principessa Sissi con Cristiana Capotondi (2009), ha interpretato Julia in Il bell’Antonio (2005) di Maurizio Zaccaro, è stata accanto a Lorenzo Crespi in Pompei(2007) di Giulio Base, che l’ha diretta anche in La donna della domenica (2011), tratto dall’omonimo successo letterario di Fruttero e Lucentini. È stata protagonista anche in Lo scandalo della Banca Romana (2010) di Stefano RealiLe ragazze dello swing, sul celebre Trio Lescano e Presagi di Lamberto Bava (2012).

Quando hai deciso che avresti fatto l’attrice e come hai iniziato?

Quando avevo 6 anni ho sentito di essere diversa. Vivevo in un piccolo paesino nel sud dell’Ungheria e appena ho potuto ho cominciato a fare danza. Poi dai 16 anni mi sono mantenuta da sola (da noi a 18 anni i ragazzi sono già fuori casa). Lavoravo e studiavo. Facevo la modella, ho fatto molte pubblicità e nel ’96 ho vinto un concorso (Look o f the Year). Sono stata scelta per un piccolo ruolo in Spy Game e ho capito che ciò che volevo era trasmettere emozioni… È lì che ho capito che avrei voluto fare l’attrice. Ho frequentato una scuola di recitazione a Budapest, poi l’International Acting School a Roma. E da allora non mi sono mai fermata.

Che ruolo ha avuto la formazione nella tua carriera?

Io sono una che studia molto perché ho un cervello che non si ferma mai, e quindi devo tenerlo sempre impegnato. Mi piace trovare nuove cose, mi piace provarmi, mi piace essere in compagnia, in comunità. Per cui queste scuole, questi corsi, questi seminari sono molto utili e importanti.
Ho studiato a Roma, ho studiato a Los Angeles, e non si studia mai abbastanza, credo.

Quest’anno sei stata madrina dei workshop di Ivana Chubbuck in Italia. Cosa ti ha colpito della sua tecnica?

La velocità. A volte non hai due mesi di tempo di preparazione, perché oggi ti chiamano per un provino e magari entro tre giorni devi girare. Poi davvero ultimamente sono arrivata a dei livelli estremi! Perché ormai, non solo in America, ti danno le battute la mattina stessa in cui giri. Ho appena girato una commedia tedesca e anche lì, mezz’ora prima, dieci minuti prima delle riprese cambiavano le battute, cambiavano un po’ la scena… E questo per un method actor è un disastro! È una tragedia, perché vai in tilt, vai nel panico.
Invece grazie a questi nuovi metodi, che si adattano meglio ai ritmi dell’industria cinematografica o del mondo dello spettacolo, si fa prima. Il lavoro è comunque profondo, ma è diverso. È diverso l’approccio, è diversa la tecnica. Per cui io trovo molto efficace questo metodo di Ivana. Mi ha aiutato veramente tanto quando ho dovuto tirare fuori il mio talento in tempi veloci.

In Spy Game hai recitato accanto a Robert Redford e Brad Pitt, un film che ti ha poi catapultata nel cinema mondiale. Cosa ti è rimasto più impresso di quell’esperienza?

Sì è vero che mi ha catapultata. Avevo vent’anni, nessuna esperienza e ho iniziato con due dei più grandi mostri di sempre, Brad Pitt e Robert Redford… È stato molto difficile, perché ero imbarazzata, non parlavo ancora bene l’inglese. Però mi ricordo che Robert Redford mi ha dato un consiglio, mi ha detto che la bellezza non basta e che era importante studiare… quindi io questo l’ho preso da lui.

Recentemente hai interpretato una madre colpevole di aver ucciso il proprio figlio nel film di Fabrizio Cattani Maternity blues, un ruolo forte e drammatico per il quale hai vinto molti premi. Come hai vissuto il ruolo di madre infanticida?

Nel film ho ucciso due figli. È stato il mio lavoro più difficile, fino ad oggi. Ne sono uscita molto molto lentamente… secondo me mi ci è voluto un anno e mezzo per dimenticare quel personaggio.
Mi sono preparata con la mia insegnante, Doris Hicks, che ha lavorato accanto a Susan Batson a New Tork per 15 anni – Susan Batson è la coach di Nicole Kidman, per esempio, ma anche di Juliette Binoche – e lei mi ha portato, in 5 giorni, all’esaurimento fisico e mentale. Quando io, alla fine del quinto giorno, mi sono sentita male, ho avuto anche la nausea e le ho chiesto una pausa, lei ha detto “Ma scherzi! È proprio questo lo stato d’animo che stavamo cercando! Perchè questo è l’esaurimento fisico e mentale del tuo personaggio, in cui decide di commettere quel reato, perchè non ce la fa più, non ne può più”. Per cui io ho affrontato le riprese in quella condizione mentale e fisica, come se avessi ucciso i figli prima. Cioè quasi ucciso… nel senso che mentalmente sono arrivata quasi a capirla.

Il tuo anno cinematografico nel 2014 è cominciato con l’uscita in sala del film Anita B. di Roberto Faenza. Una storia sul dopo-Aushwitz che affronta il tema dell’olocausto da un punto di vista insolito e che invita a fare “esercizio di memoria”. Come ti sei preparata e che sensazioni ti ha lasciato?

Questo film, Anita B., l’ho amato perché, oltre ad essere un bel film, è tratto da un libro ungherese di Edith BruckQuanta stella c’è nel cielo. Ho letto il romanzo ma conoscevo già un po’ questa storia.
Ho conosciuto la scrittrice Edith Bruck e mi ha raccontato moltissimo, di questa sua storia autobiografica. Mi ha raccontato di sua zia e delle sue motivazioni [Andrea Osvart nel film interpreta Monika, la zia della giovanissima protagonista Anita], ed era stupendo perché anche se non era più in vita, conservava dei ricordi di lei abbastanza amari ma non ne parlava mai male, anzi la difendeva ancora. Dicendo che lei non era cattiva, si era soltanto ‘indurita’, durante la guerra. E me l’ha spiegata così bene che io ho sentito che il mio personaggio nel film è diventato veramente forte.

Hai interpretato Saskia Terzani nel film La fine è il mio inizio, sugli ultimi mesi di vita di Tiziano Terzani. Cosa ti ha colpito di più del tuo personaggio e del lavoro su quel set?

È stato un lavoro particolare. Primo perché dovevo interpretare una persona vera, che esite, che ho incontrato [ride], che ho conosciuto, una bellissima ragazza Saskia Terzani. Poi il lavoro è stato straordinario, perché abbiamo girato nei posti originali, in Toscana, dove appunto Terzani viveva con la sua famiglia. Ed erano presenti tutti: Angela la mamma, Folco il figlio, poi è venuta Saskia la figlia, con i bambini – che poi ci sono anche nel film e nel romanzo. Per cui a volte eravamo veramente una grande famiglia.
Loro sono delle persone eccezionali. Ancora ci teniamo in contatto e ogni tanto ci sentiamo, perché mi sono sentita veramente accolta bene.

In Transporter: The series Luc Besson ti ha voluta per il ruolo della protagonista, un’ex agente della Cia. Com’è stato lavorare per questa megaproduzione internazionale?

Un’esperienza ovviamente indimenticabile. Perché 43 milioni di dollari – credo che tanto sia costata la serie -, girato tutto in Canada, qualche giorno in Francia… È veramente il sogno di ogni attore, come potrai immaginare, poter lavorare almeno una volta nella vita in una produzione così ricca.
Però devo dire che ho imparato che una macchina così grande può essere anche controproducente. Noi avevamo tanti problemi sul set: hanno cambiato lo staff, gli scrittori, il direttore della fotografia… Quando c’è troppa gente è tutto ancora più difficile da gestire, e questo stress si sente molto sul set. Per cui io preferisco le riprese europee.

I lavori ti hanno portata a viaggiare tra Roma e Los Angeles. Quali sono, nella tua esperienza, le principali differenze tra il cinema italiano e Hollywood?

Trovo più originale il cinema italiano, perché a Hollywood non riescono a sorprendermi più così tanto… Si copiano l’uno con l’altro, e non mi lasciano emozioni. Invece credo che in Europa – non solo in Italia ma in tutta Europa – i filmaker cercano di emozionare il pubblico, e non soltanto di farci i soldi sopra.

Finora hai lavorato in film drammatici ma anche in commedie, noir e action movie. Qual è il genere cinematografico con cui ti trovi più a tuo agio?

Io sono una persona drammatica. Sono portata più per il dramma. A volte faccio commedie, però non mi sento molto portata per quello.

Qual è il progetto cinematografico o televisivo al quale sei rimasta più legata?

I due film di Fabrizio Cattani, Maternity Blues e il primo, Il Rabdomante. Perché sono tutti e due film che ho fatto gratuitamente, per il mio piacere di farlo, perché ci credevo, perché eravamo una grande famiglia. E volevo emozionare la gente. Ero sicura di fare qualcosa di bello, di utile, d’importante. Tutti quelli che hanno lavorato su questi due film la pensavano bene o male così… lì ho conosciuto persone davvero bellissime.

Quali sono il regista o la regista italiani con cui ti piacerebbe lavorare?

L’ho detto già tante volte [ride]… è Sergio Castellitto.

La lista di film che stai girando è enorme. 
Dove ti vedremo prossimamente?

Ho appena finito di girare un film drammatico dal titolo provvisorio Eros, diretto da Christopher Papakaliatis, e lunedi finiró di girare anche una commedia tedesca dal titolo: Der Nanny (Il Tata, quindi una tata maschile), diretto e interpretato nel ruolo principale da Matthias Schweighöfer.
Spero che tutti e due saranno distribuiti in Italia!
Poi sono anche la produttrice di una co-produzione italo-ungherese dal titolo Madeleine, diretta dai due registi Lorenzo Ceva Valla e Mario Garofalo, che con la loro opera prima Ainom hanno vinto nel 2012 in Cina il “Golden Rooster” (l’Oscar cinese) come migliori registi. Eppure in Italia non sono conosciuti, ancora.

by Valentina Leotta.

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